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DA BILL 04: GUERRA E PUBBLICITÀ
Alessandro Stenco

Sul nuovo numero di Ottobre, Bill pubblica uno speciale sul (complicato) contributo di Madison Avenue alla causa bellica USA. Un tema ancora più attuale dopo la crisi di Bengasi. La firma è di Alessandro Stenco. Eccone qualche estratto.

Molte parole che potrebbero appartenere al vocabolario di un ufficiale dell’esercito risuonano ogni giorno tra le pareti di un’agenzia di pubblicità. Il loro utilizzo è per fortuna solo metaforico, anche se molto spesso nella storia contemporanea le agenzie sono davvero entrate in guerra impegnandosi nella propaganda bellica. E’ allora che l’oliatissima macchina organizzativa delle grandi corporation della comunicazione è tornata a dare un significato militare a parole come campagna, strategia, target, briefing.

Allo scoppiare di una guerra ogni settore produttivo è sempre stato chiamato a fare la propria parte adeguando la linea produttiva allo sforzo bellico. Una fabbrica di trattori poteva diventare produttrice di carri armati, una sartoria passare dal prêt-à-porter al confezionamento di divise, l’industria cinematografica realizzare cinegiornali e film di propaganda. Negli Stati Uniti, nel periodo compreso tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, anche Madison Avenue fece la sua parte elaborando l’arma del consenso di massa e mettendola a disposizione del Governo; un contributo determinante quanto la produzione di un ordigno ad altissimo potenziale. La collaborazione tra agenzie di comunicazione e Governo influenzò le sorti della politica ma lasciò anche un segno indelebile nel mercato pubblicitario: quanto svolto fu di chiara ispirazione a proseguire la carriera nell’advertising anche per chi pubblicitario non era. Fu un vero e proprio reclutamento di talenti da impiegare in pubblicità in tempo di pace.

L’ente governativo incaricato di gestire la macchina della propaganda era il CPI, Commitee on Public Information, di cui facevano parte anche comunicatori di primo piano come Walter Lippmann, altro celebre giornalista vincitore di due premi Pulitzer e il giornalista e pubblicitario Edward Louis Bernays. Il direttore civile era George Creel, autorevole giornalista, il quale dichiarò«La natura del lavoro della CPI fu così distintamente quella di una campagna di advertising, che tutti ci siamo istintivamente volti verso la professione pubblicitaria». Il compito di questa commissione, durante la Prima Guerra Mondiale, fu quello di far accettare a un’opinione pubblica ostile l’intervento americano nel conflitto. Bernays, unanimemente considerato il fondatore delle Pubbliche Relazioni affermò: «L’incredibile successo registrato dalla propaganda durante la Prima Guerra Mondiale ha rivelato a una minoranza di persone intelligenti le possibilità che la Propaganda offre per mobilitare l’opinione pubblica a favore di qualsiasi causa. Era dunque naturale che, finita la guerra, le persone intelligenti si fossero interrogate sulla possibilità di applicare la stessa tecnica per affrontare i problemi del tempo di pace». La guerra aveva dunque fatto capire l’incredibile potenziale persuasivo della propaganda, da utilizzare quando sarebbe venuto il momento di vendere prodotti.

Fu proprio la CPI a ideare l’iconico Uncle Sam e il suo celebre titolo: “I Want You for US Army”. Ispirato a un manifesto inglese di tre anni prima, fu utilizzato per promuovere il reclutamento di soldati sia nella Prima che nella Seconda Guerra Mondiale. L’aneddotica racconta che l’origine dello Zio Sam possa essere ricondotta ai barili contenenti carne, marchiati con le iniziali U.S. (United States). I soldati americani addetti al vettovagliamento iniziarono scherzosamente a chiamare Zio Sam il produttore di carne in scatola per le truppe, che si chiamava Samuel Wilson. Uncle Sam, appunto.

Durante la Seconda Guerra Mondiale l’agenzia J.Walter Thompson realizzò quella che è riconosciuta come una delle campagne belliche di maggior successo: Rosie the Riveter, la ribattitrice. Nel manifesto una donna americana in tuta da operaio, mostrando il suo bicipite muscoloso, diceva: “We Can Do It”. La campagna, che lanciava alle donne americane un messaggio di parità (anche noi possiamo svolgere il lavoro di un uomo, non tiriamoci indietro, rimpiazziamo nelle fabbriche i nostri uomini impegnati al fronte), riuscì a coinvolgere più di due milioni di nuove lavoratrici nel mondo dell’industria di guerra, numeri strabilianti per l’anno 1940. L’annuncio ebbe una vasta eco nella cultura popolare. Rosie the Riveter diventò negli anni un’icona pop conosciuta e citata in continuazione anche ai giorni nostri. Non si può forse dire che fu questa campagna a segnare l’emancipazione femminile ma di certo da quel momento le donne ebbero la possibilità di ritagliarsi ruoli di maggiore responsabilità. Dopo questa campagna la posizione sociale e il salario non potevano più essere considerati prerogativa esclusiva degli uomini.

Altro contributo importante dell’advertising alla causa bellica fu quanto realizzato dal War Advertising Council dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor nel 1941 per promuovere tra gli americani la sottoscrizione dei War Bonds, i buoni del tesoro in tempo di guerra. Guidato da Chester La Roche, già a capo dell’agenzia Young & Rubicam, l’ente (che aveva inglobato l’Office of War Information, al cui comando c’era Elmer Davis, uno dei più affermati giornalisti del Paese) esortò gli americani a impegnarsi attivamente per vincere il conflitto. Nello specifico fu chiesto agli imprenditori di inserire nelle proprie campagne pubblicitarie contenuti patriottici. Annunci di frigoriferi, bibite, sigarette e automobili, realizzati con chiare connotazioni militari, oltre a enfatizzare il prodotto, chiamavano il consumatore all’acquisto dei War bonds. Una scelta strategica oculata: come avrebbe potuto in seguito il consumatore dimenticare i brand che avevano dato il loro apporto alla vittoria finale?

Il resto è su BIll 04.

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