1.   Accetto i termini della Privacy Policy
DA BILL 12: BARBELLA SUGLI APOCALITTICI
Pasquale Barbella

Da una parte gli entusiasmi sul progresso tecnologico, dall’altra critiche e rappresaglie sempre più feroci alla civiltà che abbiamo costruito. Gli apocalittici sono tornati tra noi. Si salvi chi può.

Venditori di caramelle

La pubblicità suscita correnti d’opinione spesso negative. Da giovane ho avvertito, da certi silenzi, la commiserazione di persone care: amici talmente fiduciosi nelle mie potenzialità da giudicare un ripiego e uno spreco la mia scelta di operare in quel genere di comunicazione. E fino all’ultimo ho dovuto difendermi da mia madre, il cui dissenso aveva un movente alquanto eccentrico: giudicava i miei lavori non per ciò che dicevano o per come lo dicevano, ma dal settore merceologico di turno. Si rallegrava in caso di automobili ma si oscurava in caso di soft drink o altre merci di poco prezzo, perché questo era – secondo lei – una prova di fallimento. Se ci imbarcavamo in un’accesa discussione politica, sport in cui le piaceva trascinarmi con qualche provocazione gettata lì quasi per caso, sul più bello tagliava corto con un insulto singolare: «Sei solo un venditore di caramelle.»

Le opinioni sulla pubblicità variano nel tempo e sono indizi da non sottovalutare, perché registrano come un elettrocardiogramma le pulsazioni e il flusso dei cicli ideologici. Una delle critiche più stabili consiste nell’accusare la pubblicità – non questa o quella, ma in blocco – di essere menzognera e di istigare al consumismo. Non sempre si tratta di un giudizio coerente, a giudicare dal tenore di vita dei censori, dai loro desideri e dai loro acquisti. Lo stesso giudizio riveste un valore più razionale, invece, quando insieme al consumismo (che è un effetto forse ineliminabile del capitalismo) si prende di mira l’intero sistema economico e culturale da cui scaturisce. È ormai nota ai lettori di questa rivista la risposta di Bernbach allo storico Arnold J. Toynbee, che accusava la pubblicità di essere immorale: «L’oggetto del disprezzo di Toynbee non è la pubblicità. È l’economia dell’abbondanza o, per usare il termine che tutti conosciamo, il capitalismo. Non ci sarebbe nulla di male, se dicesse chiaramente qual è il reale obiettivo delle sue critiche. Molti aspetti del capitalismo dovrebbero essere corretti, e Toynbee farebbe un gran favore a tutta l’umanità se riuscisse a convincerci a operare queste correzioni, ma non lo farà mai se continuerà a gettare fumo negli occhi con le sue filippiche contro uno strumento che viene usato dalle grandi aziende per vendere di più.».

Non ho mai letto Toynbee e confesso di aver dato una semplice occhiata al suo profilo wikipedico, curioso di capire da quale sponda filosofica o sociologica arrivasse il suo malcontento. L’impronta religiosa dei suoi scritti sulla nascita e il declino delle civiltà farebbe escludere una sua simpatia per il marxismo, il pensiero anarchico o altre forme di critica radicale al sistema. Posso sbagliarmi sul suo conto, lo so; ma non importa. Perché ciò che ci interessa, almeno nei limiti di questi appunti, è un altro tema: vedere a quali condizioni e con quali argomenti si può – o si deve – criticare la pubblicità senza entrare in contraddizione con sé stessi. Più in generale, vorremmo misurare – attraverso le critiche più solide e coerenti alla pubblicità e al sistema che ne fa uso – lo spessore e le eventuali conseguenze di nuove o rinnovate ideologie che si vanno formando dopo il declino quasi universale del comunismo.

Premessa necessaria: per i motivi ai quali abbiamo già alluso in partenza (la comunicazione commerciale come fenomeno inscindibile dal tipo di economia che la utilizza) sarebbe sterile riferirsi alla pubblicità nella sola accezione di advertising, cioè di quell’insieme di messaggi costruiti ad hoc per il raggiungimento di obiettivi temporanei. Parliamo invece di pubblicità in tutte le sue manifestazioni, inclusa l’architettura di edifici di rappresentanza e altre opere realizzate a scopo persuasivo. Se separiamo la Nutella dalla torre Eiffel, dall’imponenza dei palazzi aziendali e dalla Cappella Sistina perdiamo di vista il paesaggio generale, la scena in cui la civiltà della produzione (di merci, di miti, di credenze) si è andata esprimendo nei secoli o millenni fino a portarci al punto in cui siamo. L’oggetto delle critiche più feroci (e strutturate con maggiore coerenza ideologica) al sistema, da Adorno ai no global, non è la réclame di turno ma l’insieme che la comprende.

Era inevitabile che Adorno e Horkheimer vedessero nella pubblicità il mostro dei mostri: adorno«La pubblicità rappresenta, oggi, un principio negativo, uno strumento di esclusione, un congegno di sbarramento: tutto ciò che non reca il suo marchio è economicamente sospetto. Dal momento che, sotto la pressione del sistema, ogni prodotto adopera la tecnica pubblicitaria, questa è penetrata trionfalmente nell’idioma, nello “stile” dell’industria culturale. La sua vittoria è così completa che essa, nei punti decisivi, non ha più nemmeno bisogno di diventare esplicita: i palazzi monumentali dei giganti, pubblicità pietrificata sotto la luce dei riflettori, sono privi di réclame, e tutt’al più si limitano a esporre, sui merli delle loro torri, fulgide e lapidarie, senza bisogno di elogi o di autoincensamenti superflui, le iniziali della ditta.» Su una parte del discorso non si può non convenire: è vero, e in tal senso i due filosofi sono stati addirittura profetici, che le logiche pubblicitarie hanno stravinto su tutta la linea. Ma prendersela con l’architettura delle sedi aziendali è un pensiero da talebani. Come sparare sulle statue di Buddha o buttar giù la basilica di San Pietro: perché anche quella non scherza in fatto di propaganda.

Coppertone sulle macerie

Ma prima di procedere coi pensieroni, lasciatemi sfogare un po’ con una digressione personale. Sono nato durante la seconda guerra mondiale e sono cresciuto fino all’età adulta nell’indigenza, come molti dei miei coetanei e conterranei.  Che cos’era la pubblicità, ai miei occhi, nei primi anni del dopoguerra? I manifesti dei film, prima di tutto. Ricordo specialmente un muro di Foggia, davanti alla casa dei nonni. Quartiere popolare nel centro storico, a due passi dal mercato e dal bordello. Starring Rita Hayworth, Humphrey Bogart, James Stewart. Per me quel muro era più magnetico di un ottovolante.

E poi, a passeggio qua e là, pochi cartelloni e murales che erano il Louvre dei poveri. Brill e Marga, lucidi per le scarpe. Marche per eccellenza in un mondo quasi del tutto unbranded. La domenica, borghesi e proletari calzavano tutti scarpe lucidate a specchio. Ma c’era anche il cagnolino sulla spiaggia, che inseguiva la bambina e con un morso quasi le sfilava le mutandine da bagno: per mostrare la differenza tra la carne abbronzata e quella rimasta in bianco. C’era solo una scritta: Coppertone. La parola rimase per anni un mistero assoluto per me e molti altri. «Zia, che vuol dire Coppertone?» «Non lo saccio». Sfogliare riviste era come lavarsi i denti dalla mattina alla sera. Binaca. Chlorodont. binacaGran scuola di igiene dentaria, le riviste. Giusto: in casa ti lucidavi i denti, e prima di uscire ti guardavi le scarpe per vedere se brillavano come il tuo sorriso Durban’s. Questo era la pubblicità dopo la guerra e prima della grande ripresa. Dal bang al boom. Coppertone sulle macerie, università di igiene personale prima di fare il salto nel benessere. Se mi fosse capitato a Foggia di incontrare Vance Packard, lo avrei strozzato con le mie mani. Anche se nel 1957 non sapevo chi diavolo fosse, né cosa fosse l’advertising. Sapevo solo che la pubblicità era la cosa più bella che ci fosse da guardare lì, perché la città era stata quasi completamente rasa al suolo, come Dresda e Norimberga. Foggia era uno snodo ferroviario strategico, di quelli che attirano le bombe come la carta moschicida attira le mosche. A proposito: anche agli insetti molesti era stata dichiarata una guerra senza quartiere. C’era dappertutto la pubblicità del DDT (dicloro-difenil-tricloroetano), flit per gli amici. Ancora una volta la scuola d’igiene: in Sardegna, col flit avevano debellato la malaria, nel 1939.

Anche la pubblicità era una bomba: decorativa e, soprattutto, istruttiva. In città ce n’era di più che nei paesi di provincia, ed è forse anche – o soprattutto – per questo che i suburbani sentivano un gran desiderio di tuffarsi nella grande città, di tanto in tanto. La Fiera del Levante, a Bari, attirava moltitudini pazze di gioia. Come si fa a parlare genericamente di pubblicità (ma anche di economia e politica) senza aver vissuto – o almeno studiato – la differenza tra un prima e un dopo? In quegli anni non aveva alcun senso, almeno in Italia, discettare sulla qualità specifica di questo o quel messaggio. Tutta la pubblicità era buona, per il solo fatto di esserci. Ci raccontava, a modo suo, cosa bisogna fare per vivere un po’ meglio. Uscivano prodotti mai visti prima: utili, ed era utile sapere della loro esistenza e funzione. BrylcreemVenne la Triplex con le bombole di Liquigas, e smettemmo di affumicare le cucine. Importammo il Brylcreem per andare a ballare la domenica con i capelli ancora più lucenti delle scarpe. Si videro in giro la Lambretta, la Vespa, la Seicento. Gli abiti preconfezionati. In casa il frigo, la lavatrice. La televisione. Quanto eravamo preparati a tutto questo? La pubblicità faceva da intermediaria tra noi e il futuro: cominciò a intensificare la sua presenza, diventò il manuale d’istruzioni e il maquillage della nuova era. Era il volto allegro della povertà: il sogno della riscossa.

Non che fosse una novità, si capisce. Tra la rivoluzione industriale e lo scoppio della seconda guerra mondiale c’era stata la fase artistica del cartellonismo, con il suo proficuo scambio di contributi fra avanguardie e réclame. Tutto ben documentato nei libri, in rete e nell’immaginario collettivo. Sebbene remoto, quel periodo – da Chéret a Cappiello, da Dudovich al primo Munari, passando per le vie e le follie del Futurismo – è più conosciuto di quello successivo, meno aristocratico, meno memorabile, alla buona ma più denso di novità, che corre dal 1945 al 1960.
Nostalgia?
Balle. Che nostalgia si potrebbe mai provare per le toppe al culo, le case diroccate, l’endemica carenza di soldi, i giocattoli mai posseduti, i nuovi oggetti che in qualche caso si potevano comprare ma solo indebitandosi, le ragazze a cui non potevi offrire neanche un gelato?

Il resto è su Bill 12.

Tag: , ,

 

Comments are closed.