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DA BILL 12: GOSSAGE E McLUHAN
Andrea Fontanot

Su Bill 12 pubblichiamo un articolo inedito del grande Howard Gossage su Marshall McLuhan, il citatissimo (non sempre a proposito) studioso dei media. Un testo storico, che Andrea Fontanot traduce e presenta, sempre su Bill 12 ma anche qui, dirimendo più di un fraintendimento. E spiegando perché, oggi più che mai, ci serve capire McLuhan.

Per quale motivo pubblicare oggi un articolo di Howard Gossage del 1966 su Marshall McLuhan, oltre al fatto che l’autore è stato uno dei pubblicitari più interessanti e provocatori di sempre (Bill se ne è occupato in maniera estensiva nel numero 5)? Beh, ci sono almeno due buone ragioni.

La prima è che Gossage è uno dei pochi, da bravo “comunicatore”, a preoccuparsi che il pensiero di McLuhan sia realmente compreso fino in fondo, al di là dello stile del grande sociologo canadese, spesso oggettivamente ermetico e complicato per chi ci arrivi sprovvisto di un bagaglio di studi appropriato, cioè la maggior parte di noi, e al di là dei citazionismi, che banalizzano in slogan e frasette da aperitivo la sostanza delle intuizioni di McLuhan (e Gossage sa anche, ovviamente, che la buona comunicazione non c’entra nulla con la riduzione a vuoti slogan, che ne è la parodia). Perché Gossage si rende conto dell’importanza assoluta delle tesi rivoluzionarie di Mc Luhan per la società contemporanea. E si preoccupa che vengano recepite nella loro interezza, e correttamente. Si pone da interprete, da traduttore. Understanding McLuhan, appunto. E allora semplifica, decodifica, accompagna, ogni tanto arricchisce, talvolta si lancia in esemplificazioni magari un po’ naïf, ma senza mai tradire la natura del messaggio originale, senza banalizzarlo. In una parola: umanizza. Se ci pensate, fa al meglio il suo lavoro di pubblicitario. I due si conoscevano e si frequentavano, cosa che per chi ha un’idea delle loro storie e sa quanto fossero personaggi apparentemente agli antipodi per carattere e inclinazioni, appare sorprendente. E ciò rende Gossage un “traduttore” ancor più autorevole del pensiero di McLuhan.

McLuhan

La seconda buona ragione è ancora più buona. Ed è la coincidenza temporale tra l’epoca dello scritto di Gossage (metà anni Sessanta, come detto) e la nostra attuale. Come nota Gossage stesso, in quegli anni McLuhan conosce una popolarità altissima, da vera star, è coccolato dai media, citarlo doveva essere parecchio cool. Il motivo di tale boom è semplice: a metà degli anni Sessanta il mondo intellettuale comincia a prendere atto di come la televisione, presente da quasi un ventennio, stia cambiando radicalmente le dinamiche dei rapporti sociali e la diffusione delle idee. E allora si accorge che c’è un professore canadese che sta parlando di media e dell’effetto che le tecnologie hanno sugli esseri umani, tutte cose che nel mondo accademico apparivano frivole e non meritevoli di approfondimento. Si accorgono che McLuhan aveva previsto tutto, e cominciavano ad abbeverarsi alla sua fonte nella speranza che li aiutasse a capire meglio quello che stava succedendo.

Dove sta la coincidenza? Il fatto è che oggi, nel 2014, mezzo secolo dopo, è passato circa un ventennio dalla diffusione di un nuovo medium capace di mutare in maniera epocale la nostra società. Negli ultimi anni cominciamo a prendere coscienza delle mutazioni epocali che il nuovo ambiente digitale sta creando, sul lavoro, nei rapporti umani, negli acquisti, nelle abitudini quotidiane, nel consumo culturale, nella politica, nel modo di comunicare, di gestire il tempo, nel godersi i piaceri. E avanti. Allora cominciamo a renderci conto della necessità di un’analisi e riflessione profonda su questi effetti. Ma McLuhan è morto nel 1980, si potrebbe obiettare: che volete che c’entri con Internet e l’era digitale? C’entra, c’entra. Ad esempio, nel 1962 scriveva questo: «Invece di tendere a diventare una gigantesca biblioteca di Alessandria, il mondo è diventato un computer, un cervello elettronico molto simile a quello di un racconto di fantascienza per bambini. E mentre i sensi vanno fuori da noi, il Grande Fratello entra in noi. Così, se non riusciremo a renderci conto di questa dinamica, ci ritroveremo improvvisamente in una fase di terrori panici, assolutamente appropriata a un piccolo mondo di tamburi tribali, di totale interdipendenza e di coesistenza imposta dall’alto».

Lo ripeto, nel caso fosse passato inosservato: Mille-novecento-sessanta-due. Aveva in pratica previsto Internet, ma non tanto l’ottimistica, progressista Internet dei primordi del World Wide Web, quanto quella che stiamo vivendo nell’ultimo decennio, il web 2.0 e oltre, con almeno quarant’anni d’anticipo! Come ha fatto? Era un guru delle tecnologie ed è riuscito a prefigurare questa visione grazie alla conoscenza tecnica? Niente di più lontano da ciò: chi scriveva queste parole era un professore cinquantenne di retorica rinascimentale (sissignori, questa era la sua cattedra universitaria) che, da profondo e vero conservatore e fervente cattolico, disprezzava profondamente i progressi tecnologici e i cambiamenti che questi inevitabilmente si portavano dietro. Ma allo stesso tempo tale repulsione non impediva all’eccezionale curiosità della sua mente di rimanere aperta, per capire come questo avvenisse; d’altro canto la sua cultura classica, imbevuta dell’amato Joyce ma anche di oscuri testi esoterici, gli faceva vedere trame e derive che un esperto di tecnologia, o un cosiddetto futurologo, non avrebbe mai neanche immaginato. McLuhan non frequentava l’IBM o la NASA, passava gran parte del suo tempo studiando oscuri libellisti della Riforma del XVI secolo. Lo fa notare anche Gossage: McLuhan aveva la rara capacità di osservare un ambiente dall’esterno, grazie al suo essere un totale alieno nella società occidentale del dopoguerra, mentre tutti gli “specialisti” non riescono a vedere al di là del proprio naso. McLuhan arrivava a queste strabilianti, per noi oggi, conclusioni, non ragionando sullo sviluppo tecnologico – cosa impossibile da prevedere – ma analizzando come i media provocano effetti fisici, neuronali e sensoriali sugli esseri umani nel momento stesso in cui vengono adottati.

«Il medium è il messaggio» ne è la conclusione. Il fatto è che, oltre a essere una di quelle citazioni mcluhanesche così in voga (probabilmente quella in assoluto più inflazionata, o quantomeno se la gioca con il «Villaggio Globale»), è anche tra le più equivocate. Soprattutto nell’ambiente dei media e della pubblicità. Gossage chiarisce il malinteso molto bene, e rimando all’articolo per la spiegazione esaustiva. Il punto-chiave, comunque, è che ogni medium, inteso come ogni estensione dell’uomo originata dalla tecnica, ne modifica i sensi e le funzioni che va ad integrare e sostituire. L’effetto più importante del medium agisce strutturalmente su di noi, ci modifica; ci riprogramma il sistema nervoso centrale, per dirla con un termine tecnologico, probabilmente più appropriato perché c’è una fusione tra corpo e macchina che fa nascere, magari temporaneamente, qualcosa di diverso e ibrido.

Per questo, «il mezzo è il messaggio», perché qualunque contenuto esso possa propagare, sarà inevitabilmente secondario negli effetti rispetto al “lavoro” del medium stesso in azione. In questi ultimi anni, nell’ambiente pubblicitario, mi è capitato di sentire facezie tipo “il messaggio è il messaggio, quindi McLuhan non è più attuale”, basate sull’idea che nel web, come si usa dire, “the content is king”, e perciò è il messaggio, inteso come contenuto, a essere dominante nella piattaforma aperta del web. Balle. O, più elegantemente, se preferite: tipico esempio del guardare il dito invece della luna. Mai come ora l’assioma di McLuhan è apparso così palesemente davanti ai nostri occhi. La pervasività del web, ora spostatosi in ambiente mobile, e poi sempre più legato agli oggetti che indosseremo e vivremo, è la migliore (o peggiore) manifestazione possibile dei principi del buon Marshall. Qualcuno ha detto Google Glasses?

Anche la riflessione sviluppata da Gossage nella pur bizzarra «recensione di un libro non ancora scritto» alla fine dell’articolo è meritevole di approfondimento. Provate a trasferire l’idea dell’ambiente e dell’extra-ambiente in ambito digitale, e virtuale. C’è da perderci la testa. Bisogna ripartire dall’idea che McLuhan aveva ragione. E provare a vedere che cosa aveva da dire, come in un messaggio dalla macchina del tempo, a noi abitanti dell’inizio del ventunesimo secolo, e cosa aveva previsto oltre. Dopo essere stato una celebrità pop negli anni Sessanta, in un’onda lunga che arriva fino al cameo in Io e Annie di Woody Allen, pian piano il mondo ha perso interesse in McLuhan. Come ci ricorda Douglas Coupland, che un paio di anni fa gli ha dedicato una bella biografia, nella quale quasi affettuosamente evoca sempre il suo compatriota per nome di battesimo: «Durante tutti questi anni Marshall è rimasto sostanzialmente un intellettuale di culto, riservato a un gruppo ristretto di persone i cui circuiti mentali ricalcavano da vicino i suoi: docenti universitari ed esperti ai margini estremi dell’industria mediatica […]».

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Ma circa cinque anni fa, usiamo sempre le parole dell’autore di Generazione X, succede qualcosa: «[…] è divenuto chiaro a chi era presente nel XX secolo che il tempo sembra non solo scorrere più veloce, ma comincia a fare uno strano effetto. Non c’è più tolleranza per la minima attesa. Vogliamo tutte le informazioni e le vogliamo subito. Stare 48 ore senza email può provocare una crisi. Non è concesso rallentare nemmeno una volta, mai e poi mai, se non si vuole diventare insignificanti […]. E poi l’economia è crollata in un modo bizzarro che assomiglia a un misto praticamente indescrivibile tra Google, il sito del New York Times, le finestre pop-up dei browser con le pubblicità dei siti porno russi e la radiazione psichica di quella gente che capita di vedere davanti al banco di frutta e verdura dopo le sei e che telefona a casa per chiedere se è una buona idea comprare degli spinaci… Tutte queste informazioni hanno rovinato, magari senza volerlo, un senso collettivo del tempo che funzionava adeguatamente fin dall’epoca della Rivoluzione Industriale e dell’ascesa del ceto medio. È stato probabilmente questo “mal di tempo” a distruggere l’economia e Dio solo sa cosa capiterà dopo…».

Dio o McLuhan, forse. I sintomi del mal di tempo sono molteplici e davanti ai nostri occhi: abbiamo creato reti ipercomplesse di informazioni e persone, ma tutto è così… rarefatto, effimero. La voce nella nostra mente non è più nostra, è un «eterno nomade alla deriva per un paesaggio in disgregazione che vive giorno per giorno aspettandosi tutto e niente» (sempre Coupland). E allora guardiamo a McLuhan per provare a capire, quasi a chiedere aiuto, un po’ in colpa per aver trascurato per decenni tutte le lezioni che ci aveva lasciato. Perché non aveva solo previsto tutto, ma ne aveva colto le ragioni. Aveva capito come i media, tutti i media, modificano la nostra percezione del mondo. Ci aveva avvisati, perché a lui, che i media distratti (toh!) hanno dipinto come un cantore entusiasta della nuova era mediatica solo perché è stato il primo a parlarne, tutto questo non piaceva affatto. Ci ha avvertiti che questo nuovo universo virtuale, che pure non aveva mai sperimentato direttamente, se non opportunamente interpretato e lasciato agire liberamente, porta con sé uno spaventoso rischio di diffusione di notizie false ed incontrollate, allo stesso tempo, come ci ricorda Gossage, per una generazione per la prima volta da secoli nuovamente imbevuta di cultura orale e ora anche globale, post-Gutenberg, incapace quindi di interpretare, cogliere sfumature, leggere tra le righe.

McLuhan lo dice così: «[…] è lo stato normale di qualsiasi società orale, in quanto al suo interno ogni cosa influenza costantemente ogni altra […] nella nostra lunga battaglia per riportare il mondo occidentale a un’unità di senso, pensiero ed emozione, nessuno ci ha preparati ad accettare le conseguenze tribali di una simile unificazione più di quanto fossimo pronti alla frammentazione della psiche umana causata dalla cultura tipografica».
McLuhan è come un medico che ha identificato per primo una malattia infettiva e ha lavorato per trovare un vaccino. Ora sta a noi riprendere quel lavoro. Purtroppo gli ultimi anni di vita di McLuhan sono stati condizionati da malattie e in ogni caso il suo lavoro degli anni Settanta si è fatto più ermetico che mai, forse preoccupato della comprensione del pubblico ha asciugato all’eccesso i suoi testi ottenendo paradossalmente l’effetto opposto.

Ah, e se qualcuno si domandasse a che titolo i pubblicitari parlino di McLuhan e delle sue intuizioni, e delle ricadute sulla società tutta, che secondo la vulgata dominante nei media (toh!) essi stessi contribuiscono ad avvelenare, vale la pena ricordare che l’uomo che aveva capito tutto dei meccanismi di funzionamento dei media e aveva previsto il nostro presente/futuro in largo anticipo, ha anche detto, en passant, che «la pubblicità è la più grande forma d’arte del Ventesimo secolo».

Il resto dello speciale su McLuhan è su Bill 12.

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