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DA BILL 12: McELLIGOTT, IL PREDICATORE RISERVATO
Francesco Simonetti

Riscoprire Tom McElligott, semplicemente uno dei più grandi copywriter dell’adv moderno. Un talento eccezionale raccontato da Francesco Simonetti.

1. Ora avete qualche chance: una storia che comincia dalla fine

«Questo è il primo budget su cui abbia mai lavorato dove il cliente passa più tempo in ginocchio degli account executive». Così scriveva Tom McElliggott sull’annual The One Show anno 1988 a proposito della sua campagna per la Chiesa Episcopale. Con quello e altri lavori ancora una volta aveva trasformato l’annual del club in una brochure della Fallon McElligott. Eppure sempre quell’anno, al culmine del successo, si dimetterà dall’agenzia fondata solo sette anni prima, in polemica con il management.

Dell’uscita di McElligott, fulminea come la carriera, offre una testimonianza significativa la pubblicità del Call for entries del One Show per l’anno 1989. Una serie di titoli di giornali raccontano del dominio ininterrotto della Fallon McElligott in tutti gli awards dall’83 all’88, l’ultimo ritaglio annuncia invece l’uscita del direttore creativo dall’agenzia: «Se non ora, quando?» commenta l’headline, invitando le altre agenzie a farsi avanti.

L’ironia dell’annuncio gli varrà un posto sull’annual, il che potrebbe confermare il vecchio luogo comune sull’autoreferenzialità dei premi, ma questo caso fa eccezione: qui si parla di un mito tutt’altro che farlocco. Perché nessuno come Tom McElligott ha abbracciato la fede nella creatività con la stessa integrità, etica e intransigenza di una religione, e non per caso visto che il padre è un pastore protestante del Minnesota. Il primo paradosso di un personaggio così influente e carismatico, campione della pubblicità intelligente degli anni ‘80, e quindi fatalmente pre-web, è che ne esistono in rete pochissime testimonianze, e tutte hanno il felice sapore di una setta carbonara custode del talento e dell’idea stessa di creatività. Alla difficoltà di raccontare Tom McElligott contribuisce poi la sua scarsa vocazione a fare il guru. Le poche notizie disponibili concordano nel descriverlo come piuttosto timido, spesso gli capitava di vomitare prima di una presentazione al cliente. Inoltre rispettava troppo il mestiere di copywriter per lasciare memoir, proclami o manifesti sulla creatività. La sua testimonianza è il suo lavoro e il lavoro è l’unica cosa che conti alla fine.

2. La scuola di Minneapolis

Pubblicitariamente parlando la carriera di Tom McElligott comincia grazie a Ron Anderson, art director navigato e già vincitore di diversi awards. È il 1971, Ron è a capo di quella che sarebbe poi diventata la Bozell & Jacobs di Minneapolis e crede molto nei talenti in erba. Ha già assunto infatti una giovanissima Nancy Rice, l’art director che poi sarebbe diventata una dei partner della prima Fallon McElligott. Tom ha 27 anni e nessuna esperienza significativa alle spalle, a parte due anni nel reparto pubblicità di un grande magazzino, ma grazie all’incontro con Anderson comincerà subito a creare i primi esempi di quello stile di advertising fresco e irriverente che diventerà noto in seguito come la scuola di Minneapolis. Lontano dalle luci di Madison Avenue, nel freddo Minnesota farsi notare è più che altro una necessità, perché come ricorda un creativo della Bozell: «Con le temperature che ci sono qui non puoi sopravvivere facendo della pubblicità tiepidina».
A riprova del suo humor sardonico, tra i tanti annunci a cui lavora in questo periodo ce n’è uno che evoca la celebre battuta di Benigni: «Venite a vedere 40 minuti di grandi spot pubblicitari, senza l’interruzione di pulciosi programmi TV». (L’annuncio è dell’Art Director’s Club locale per la proiezione dei film premiati al Clio.) Per tutti gli anni Settanta McElligott metterà a punto il suo stile di copywriting asciutto e irriverente perfettamente valorizzato dall’art direction di Ron Anderson. Prima che la coppia cominciasse a collaborare, Minneapolis non è certo considerata la mecca delle agenzie di pubblicità. Ma Anderson e McElligott sono sempre dietro i lavori più premiati e, facendo rodere d’invidia i colleghi, contribuiscono con il loro esempio a far alzare l’asticella creativa di tutta la comunità pubblicitaria di Minneapolis. La loro impronta creativa midwestern rimarrà nel tempo, facendone una dei più durevoli fenomeni regionali della pubblicità americana.

3. La sola pubblicità interessante è quella che ti fa sudare le mani

La Fallon McElligott degli inizi si chiama Fallon McElligott Rice, e apre sopra a un ristorante di Minneapolis, un posto non raccomandato dalle guide, perché dopotutto partono da zero. Il terzo nome in ditta, oltre alla già citata Nancy Rice, è Pat Fallon, che insieme a McElligott ha già fatto alcuni lavori come freelance a Minneapolis, con una società chiamata Lunchour.ltd, vista l’ora in cui potevano permettersi di lavorare. I ruoli sono chiari fin dall’inizio: Pat Fallon è “the suit”, l’account executive con la responsabilità di fare new business e coccolare i clienti; Tom invece, noto come “the king of print”, per il carattere stiloso e caustico delle sue campagne stampa, ha il compito di fare del suo talento il marchio di fabbrica della nuova agenzia. Anche la mission statement è chiara e allo stesso tempo ambiziosa: «Essere la prima agenzia creativa nazionale che produce un lavoro straordinariamente efficace per una ristretta lista di clienti blue chips». Per riuscirci la strategia è fare campagne che catturino l’attenzione per il brand, ma anche per l’agenzia. In tre semplici step: vincere award, stabilire la reputazione, attrarre new business. I primi clienti della Fallon McElligott sono così piccolissime realtà locali, parrucchieri, ristoranti, catene d’abbigliamento. Anche da noi in Italia, agenzie internazionali già affermate hanno fatto per anni lo stesso, sfornando paginette per negozi di ottica, ristoranti giapponesi o messicani (il piccante fa sempre ridere) o tatuatori, nella speranza di vincere alla lotteria di Cannes. Gli italiani per questo sono stati fra i più fedeli finanziatori del festival, ma non è mai servito né a vincere premi né a stabilire alcuna reputazione, già compromessa dalle campagne vere.

Secondo Tom McElligott, la stragrande maggioranza delle campagne pubblicitarie è inefficace perché non buca il rumore di fondo. Le agenzie ripetono formule risapute pur di andare sul sicuro, mettendo da parte l’unica pubblicità che vale la pena di fare: «È quella pubblicità» dirà in un’intervista alla rivista Inc., «che le agenzie di solito esitano a presentare per proteggere il loro budget. È quel tipo di pubblicità che fa sudare leggermente il palmo delle mani, che ti rende un po’ nervoso. Ecco, questa è l’unica pubblicità che vale la pena di produrre». Secondo McElligott, la creatività ha bisogno di essere fresca e inaspettata per disarmare un consumatore che nel frattempo ha già approntato le sue difese nei confronti di messaggi pubblicitari noti e formule risapute. In questa grande lotta che è il mercato, più piccoli sono i clienti, più grande è la competizione e più cruciale diventa il ruolo di un’agenzia in grado di fare da consulente. Ma anche la relazione con un piccolo cliente non è sempre idilliaca. Se da un lato i piccoli e medi clienti sono ansiosi di lavorare con la Fallon McElligott per riuscire a emergere, dall’altro investono molti soldi e tendono a mettere ansia. Ma troppa ansia succhia via l’energia vitale dall’agenzia. E una volta che si passa dalla discussione alla preoccupazione e all’ansia, si distrugge tutta l’eccitazione e la gioia di lavorare. Il senso di partnership viene ucciso quando un cliente tende a diventare un control freak, oppure vuole scrivere gli annunci e coinvolgere se stesso oltre ogni limite fino al punto da distruggere ogni entusiasmo nei creativi. Per McElligott, i piccoli clienti sarebbero più adatti alle grandi agenzie, se potessero permettersi di pagarle, perché una grande agenzia sarebbe felice di tappezzare i suoi muri con dozzine di proposte per settimane e settimane fino a trovare esattamente quella che il cliente voleva. Ma un’agenzia più piccola e più idealista come la Fallon McElligott non lavora così.

La cosa più straordinaria di McElligott, insieme all’eleganza e all’intelligente anticonformismo delle sue campagne, è che con un vero e proprio blitz conquista il successo nazionale, ma lo fa perseguendo dei principi di integrità profondi e sentiti. Tanto che anche dopo la sua uscita dall’agenzia, il reparto creativo da lui creato continuerà il suo lavoro lasciandone intatto lo spirito, e la Fallon McElligott resterà una delle agenzie in cui i creativi ritornano più volentieri a lavorare. Oggi guadagnare l’interesse dei media in tutti i modi possibili è diventato un imperativo per la crisi, ma negli opulenti anni ’80 si contavano sulle dita di una mano le agenzie impegnate a farlo, e di queste la Fallon McElligott fu forse la guida spirituale. Dall’81 all’87 la Fallon McElliggott riuscirà ad interpretare meglio di chiunque la figura dell’agenzia senza compromessi, il piccolo Davide di provincia che dà l’assalto ai Golia di Madison Avenue, realizzando così la mission statement prefissata.
E ancora oggi, dopo più di trent’anni, il titolo della pagina stampa con cui la Fallon McElligott Rice aveva annunciato la sua nascita, è rimasto il motto della Fallon di oggi: «Per clienti che vogliono superare la concorrenza con l’intelligenza e non con gli investimenti».

Il resto è su Bill 12.

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