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DA BILL 10: I CLASSICI DELLO HUMOR
Pasquale Barbella

Pasquale Barbella ha firmato per Bill la rassegna definitiva del meglio dell’umorismo nella storia della pubblicità mondiale. Imperdibile. Qui un estratto.

Quando si va a caccia di umorismo (quello vero) nella pubblicità, ci si ricorda di poche cose, le solite. Segno che il tipo di divertimento che stiamo cercando è piuttosto raro. Sfido la mia memoria ripromettendomi di elencare dieci campagne che mi hanno fatto ridere di cuore. Le prime dieci che mi vengono in mente. Eccole (non è una graduatoria, è solo una lista in ordine alfabetico). Tralascio le italiane per non fare torto a nessuno, ma non posso non citare, almeno di striscio, le campagne della STZ (Bidone Aspiratutto, Boffi, Vortice etc.); la campagna Telecom (Armando Testa) con Massimo Lopez condannato a morte che allungava a dismisura l’ultima telefonata per ritardare l’esecuzione; lo spot Euro RSCG in cui si vedeva un giovane indiano massacrare la carrozzeria della propria utilitaria per farla somigliare a una Peugeot 206.

1) Alka Seltzer: A Spicy Meatball, Doyle Dane Bernbach, New York, 1969.

Uno dei capitoli più polemici dell’umorismo pubblicitario riguarda proprio la pubblicità in quanto tale, o meglio i suoi cliché più euforici, falsi, edulcorati. La pubblicità ride di se stessa in tutta l’opera di Gossage, per esempio, e in buona parte dell’opera di Bernbach: due maestri non solo di creatività, ma anche di etica del marketing e dei consumi. Il più famoso degli spot Alka Seltzer è concepito come backstage di uno spot immaginario per qualcosa d’altro, le polpette piccanti di Mamma Mogadini. L’attore sbaglia continuamente la battuta («Mamma mia, questa sì che è una polpetta piccante!») e per questo è costretto a ripetere la scena troppe volte, tanto da stressare lo stomaco fino all’indigestione e dover ricorrere al soccorso di un Alka Seltzer. Si ride ancora oggi: per la sofferenza del maldestro testimonial costretto a simulare un piacere che non prova; per la bonaria presa in giro della cucina e del mammismo italiani; per la gag finale (la cucina sul set perde uno sportello proprio nell’unico take in cui l’attore riesce a pronunciare decentemente la battuta). Anche la sorpresina finale fa parte, da sempre, della struttura narrativa di uno sketch che si rispetti.

2) Chivas Regal: This bottle is ½ empty. This bottle is ½ full. Doyle Dane Bernbach, New York, 1970.

 

«Questa bottiglia è mezza vuota. Questa bottiglia è mezza piena.
Se è la vostra bottiglia di Chivas a restare a metà, probabilmente la vedrete mezza vuota. Se invece siete in visita da un amico e la bottiglia è sua, potete rilassarvi, sapendo che è ancora mezza piena.»
Se è già difficile strappare un sorriso con uno sketch audiovisivo, figuriamoci con una pagina di carta stampata. Una marca di whisky, per giunta. In un’epoca, mai tramontata, in cui l’intero settore merceologico si ostina a combattere le sue battaglie solo a colpi di status symbol. Qui non si vedono né facce ebeti né ambienti chic: l’art direction lavora per sottrazione di simboli, mentre il testo va a scavare nella psicologia per portare alla luce certe piccole meschinità dell’animo umano.

3) Dr.White Towels and Tampons: Have you ever wondered how men would carry on if they had periods? Bartle Bogle Hegarty, Londra, primi anni novanta.

 

«Vi siete mai chieste come se la caverebbero gli uomini se avessero le mestruazioni?». Gran colpo di umorismo al femminile, grazie alla testa e alla penna di una strepitosa Barbara Nokes. Che qui azzecca un affondo nella carne del maschio universale, suscitando immediata condivisione in tutte le donne d’occidente. Anche l’art direction concorre in modo arguto ed esemplare alla demolizione del machismo. Le didascalie intorno all’immagine sono così acuminate da sfiorare la crudeltà assoluta: «Come faccio ad andare alla finale di Coppa con questo mal di testa?», «Con queste eruzioni sul mento, a radermi non ci penso neanche», «Se ti si gonfiasse il seno e ti facesse male, ti guarderesti bene dal chiedermi abbracci e moine», «Altro che lavare la macchina; ho un tale mal di schiena», «Lo stomaco mi fa male ed è così gonfio che il capo mi ha domandato se fossi incinto», «Non riuscirò mai a dare la scalata al successo con queste gambe che vacillano una volta al mese». Ho spesso presentato questa campagna in aule piene di studentesse e posso dire che nessun altro lavoro ha suscitato altrettanta ilarità. Le donne riconoscono inevitabilmente i loro partner e altri congiunti di sesso maschile nel ritratto che ne fa la Nokes:
«A rischio di sembrare sessisti, dobbiamo osservare che quando non si sentono bene gli uomini sono peggio dei bambini.
Basta un piccolo raffreddore ed è subito “influenza”. Un mal di testa diventa “emicrania”. Un’indigestione, “sospetto attacco cardiaco”. Se gli uomini avessero i periodi, la lagna andrebbe avanti per tre lunghe settimane al mese, altro che settimana corta.
Il fatto è che sono le donne ad avere i periodi. Mese dopo mese dopo mese… per circa 35 anni. E più che pensare a come cavarsela, le donne sono impegnate a fare il lavoro di tutti i giorni nonostante le difficoltà.»
La superiore virtù dell’umorismo consiste nel fatto di rivelare verità variamente sgradevoli rendendole accettabili persino alla vittima di turno. Non sono pochi i maschi, a cominciare dal sottoscritto, che trovano divertente e ammirevole questo annuncio: anche quelli che, sottoposti alle stesse critiche dal vivo, si metterebbero subito a litigare di brutto con la propria accusatrice. L’umanità ha bisogno di umorismo: è salvifico. L’Italia di oggi soffre di gravi carenze anche sotto questo profilo. Ecco perché gli italiani si azzannano senza ritegno dappertutto, a cominciare dalla scena politica. E non parlatemi di Beppe Grillo. Sarà pure stato un comico, ma l’umorismo è un’altra cosa.

4) Guinness: Bet on Black. Abbott Mead Vickers BBDO, Londra, 2000.

Siamo ai Caraibi, in un posto che somiglia all’Avana degli anni quaranta o cinquanta del secolo scorso, prima della caduta del regime di Batista e della vittoria della rivoluzione di Castro. Atmosfera depressa e miserabile dappertutto, in forte contrasto con l’ottimismo canterino di Benny Moré e il mambo sparato dagli ottoni di Pérez Prado. Entriamo in un immenso e degradato salone che si va rapidamente affollando di umanità marginale e rigorosamante maschile. Che ci fanno lì? Scommettono il poco che possono su una gara di lumache da corsa. Un nano gestisce l’evento. Alza la voce per farsi sentire nel brusìo generale. Finalmente spara un colpo di pistola verso il soffitto: è il segnale di start. La folla si zittisce all’istante. I molluschi dovrebbero muoversi, ma permangono immobili, più morti che vivi, indifferenti all’attesa colma di speranza dei poveri scommettitori. Si trattiene il respiro. Nell’aria vola solo una mosca, che si posa sui calzoni di uno dei tanti e si mette a passeggiare indisturbata. Quando ormai tutti sembrano rassegnati al nulla assoluto, le chiocciole partono tutte insieme, a razzo. Inseguiti lungo una pista che si estende fino all’esterno del salone, i turbogasteropodi compiono il miracolo di trasformare la delusione generale in festa carnevalesca. A suggellare l’evento scorrono fiumi di Guinness: «Good things come to those who wait», le cose buone succedono a chi sa aspettare, perché per spillare la pinta perfetta di quella birra ci vogliono esattamente 125,27 secondi. La straordinaria regia di Frank Budgen crea adeguata suspense intorno all’avvenimento narrato, ma non si limita a questo. La caratterizzazione di luoghi e personaggi è talmente realistica da rasentare il documentario. L’umorismo è nell’oggetto della scommessa: non un cruento corpo a corpo di galli o di cani, ma una corsa di animali proverbiali per la loro lentezza. Un minuto di spettacolo emozionante e superbo, tutto giocato sui contrasti: lentezza-velocità, disperazione-consolazione, silenzio-trambusto. Ancora una volta, sotto il velo pacioso dell’ironia, ribolle l’autenticità della condizione umana: persino della più gravosa, come in questo caso.

5) Hamlet: Happiness is a cigar called Hamlet. Collett Dickerson Pearce, Londra, 1966-1991.

Per anni la comunità creativa internazionale che in giugno si riversa a Cannes per il festival della pubblicità soggiacque a un vero e proprio culto per la campagna Hamlet, chiedendosi quale sarebbe stata l’ultima novità della serie. Episodi sempre diversi tra loro, format immutabile: andava in scena il fallimento di qualcuno, e lo sconfitto si consolava con un sigaro Hamlet. Fallimento: una delle voci più dolorose del cosiddetto “approccio negativo” teorizzato dalla rivoluzione creativa degli anni sessanta. Persino l’austero e insospettabile Johann Sebastian Bach concorse a rendere fulminante l’ironia di quegli spot. Le note iniziali dell’Aria sulla quarta corda, jazzificate con garbo dal trio di Jacques Loussier, facevano da contrappunto al primo sbuffo di fumo alla fine di ogni sketch, un po’ per suggerire la quiete subentrata allo smacco e un po’ per prendere deliziosamente per il culo il perdente di turno. Di quella galleria di perdenti il più ricordato è un tizio che non riesce a farsi fotografare da una macchina a gettone. Compie sforzi sovrumani per assumere la postura e l’espressione giuste, ma lo scatto parte sempre fuori tempo.

(…)

Il resto è su Bill 10.

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