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DA BILL 12: INTERVISTA A EMANUELE COCCIA
Giuseppe Mazza

Quello che segue è un estratto da una lunga conversazione con Emanuele Coccia pubblicata su Bill n.12 intorno al suo “IL BENE NELLE COSE – La pubblicità come discorso morale” (Il Mulino, 2014). Sull’adv, sul nostro rapporto con le merci, sugli apocalittici, su parole ancora da inventare…

Cominciamo dicendo che il tuo libro compie un gesto fondamentale: vede la pubblicità. Come mai osservare un fenomeno tanto pervasivo è così raro per la nostra cultura ufficiale?

Forse è qualcosa di normale: la rimozione non è un fenomeno che caratterizza solo la psicologia individuale, è uno dei meccanismi che strutturano in modo determinante anche la cultura collettiva. Ogni società si definisce a partire da una rimozione, proprio come un carattere è spesso definito da ciò che rimuove. Mi sembra però che il caso della pubblicità sia ancora più curioso.

Da una parte, infatti, la pubblicità è oggetto di una rimozione culturale profonda e pervasiva: fatta eccezione della semiotica e in parte della storia, se ne parla appena e quando si fa si continua a trattarla come una non-cultura, come un’appendice di cui vergognarsi dello sviluppo capitalistico e mai o quasi mai per quello che è, ovvero un’arte (come lo è la moda, il design, o nel passato tutte le cosiddette arti applicate o arti decorative) che è chiamata come tutte le altre arti a definire e migliorare nel contempo il nostro rapporto alle cose. Ora, vi sono moltissime ragioni che hanno prodotto questa rimozione ma una delle cause è sicuramente la miopia di molti degli stessi saperi economici (marketing compreso) che divulgano un’immagine spesso rozza, falsa e parziale della pubblicità, considerata come una sfera secondaria, accidentale e del tutto soprannumeraria rispetto a quelle della produzione, della distribuzione e dello scambio. Quanto l’economia non riconosce è il fatto, evidente per chi guardi il mondo per quello che è, che lo scambio non è solo produzione, distribuzione e consumo ma anche e soprattutto un enorme atto d’immaginazione pubblica e collettiva sulle cose prodotte, distribuite e cambiate. La pubblicità non è che una forma di riflessione collettiva a cielo aperto sulla natura delle cose di uso comune di cui ci circondiamo quotidianamente e che non smettiamo di usare, comprare, produrre o sognare.

L’esistenza stessa della pubblicità dimostra che l’economia capitalista non è solo il mezzo attraverso cui una minoranza proprietaria si arricchirebbe a scapito di una maggioranza lavoratrice e non proprietaria, e non è nemmeno solo l’attività di trasformazione della natura in cultura, è soprattutto un enorme sforzo di pensare/immaginare collettivamente e pubblicamente il significato profondo delle cose che produciamo, distribuiamo e consumiamo: a questo servono le immagini e le parole che compongono il discorso pubblicitario. La pubblicità è un infinito discorso sul fatto che le merci non sono caratterizzate solo dal fatto di avere un prezzo (un valore di scambio) o una precisa funzione (il valore d‘uso), e non possono nemmeno essere definite né attraverso la loro natura o le loro qualità fisiche (nel senso di come sono prodotte ecc.) né il loro valore sociale (nel senso di possibilità di definire il proprio rango sociale attraverso il loro consumo). Nello specchio della pubblicità le cose si mostrano per quello che sono: un condensato di simboli, desideri, immaginazioni profonde e qualche volta inconfessate.

Da questo punto di vista, la pubblicità stessa (ed è il secondo punto) è il ritorno di un rimosso culturale molto più profondo, quello della natura spirituale di tutte le cose e dunque anche di quanto chiamiamo merce. L’autocoscienza capitalista tende a ridurre la produzione, la circolazione economica delle merci e il loro consumo alla soddisfazione di un bisogno di sopravvivenza o al desiderio di accumulazione delle ricchezze. Le cose hanno un valore d’uso e un valore di scambio. Persino Marx si è limitato a ripetere il discorso dell’economia classica sulle cose, ed è costretto a denunciare tutto il plusvalore sociale e simbolico delle merci come ‘feticismo’, come un residuo cultuale e religioso che il capitalismo avrebbe introdotto nella relazione con gli oggetti. Ecco, il pubblicitario è, nella società contemporanea, colui che afferma chiaramente che il nostro rapporto con le cose supera sempre quello che si esprime nella loro utilità o nella loro capacità di essere scambiate con la moneta e risponde a desideri ed esigenze più raffinate, quasi ‘metafisiche’. La pubblicità è lo spazio che fa ritornare alla parola questo terzo valore rimosso. Per questo, credo, se ne parla ancora troppo poco ed è così difficile parlare di pubblicità.

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D’altra parte, anche se sottolinei quanto lo sguardo sulla pubblicità sia influenzato da quello paranoico dei “maestri del sospetto”, il tuo libro è stato bene accolto. Forse oggi gli apocalittici egemonizzano il senso comune più che il dibattito accademico?

La cultura universitaria ha accumulato un enorme ritardo su questi temi: l’arte aveva cominciato a dialogare e a rendersi conto della pubblicità già con le prime avanguardie e poi nel dopoguerra con la Pop-Art; La sposa meccanica di McLuhan (la prima grande analisi della comunicazione pubblicitaria compiuta attraverso gli strumenti della critica letteraria) è del 1951. Poi, fatta eccezione dei lavori della semiotica (penso soprattutto a Jean-Marie Floch e a Ugo Volli), tutto si è spento ed è prevalsa l’immagine cinica e snob della pubblicità come una sorta di retorica degli squali o di sciocchezzaio per minus habentes. Il pessimismo esasperato à la Vance Packard sulla comunicazione occulta si è imposto in tutto il mondo, persino negli stessi pubblicitari (basti pensare al romanzo da ‘pentito’ di Frédéric Beigbeder, 99 Francs). E si tratta di un’attitudine elitista ed estremamente ingenua. Da una parte essa finisce per riconoscere paradossalmente alla pubblicità un potere infinito e un ruolo decisivo nelle società contemporanee: la sorgente dei costumi e dei gusti dell’intera umanità sarebbe da rintracciare in una manciata di copywriter, che formulerebbero quotidianamente la falsa verità di cui tutto il mondo si nutre. La pubblicità coincide in questa visione con l’istituzione politica per eccellenza, quella che enuncia la professione di fede di tutta la popolazione. D’altra parte simili ricostruzioni presuppongono un’idea estremamente rozza di potere, quella che identifica il governo con la cultura del segreto: avrebbe potere chi gestisce il segreto, il non-detto di una popolazione. Mi sembra che oggi accada il contrario: ha potere chi può comunicare il vero e soprattutto detiene i mezzi e lo spazio della comunicazione pubblica del vero. Il caso di Assange e quello di Snowden lo hanno dimostrato.

Credo che tutte queste forme di paranoie culturali appartengano a un mondo definitivamente estinto, e che ci sia un diffuso bisogno di liberarsi da una lunga serie di pregiudizi. In fondo la serie Mad Men ne è un sintomo evidente: un’opera d’arte di grandissima qualità prende a oggetto la vita di un’agenzia pubblicitaria e la personalità dei copywriter senza alcun desiderio o bisogno di condannarla. La percezione comune rispetto a questo mondo è cambiata, anche perché la pubblicità ormai è ovunque e non è più uno strumento in mano a qualche industriale nascosto. La pubblicità è l’arte della comunicazione pubblica, una comunicazione in cui forma e contenuto, apparenza e verità, immagine e parola non possono più essere distinti, in nessun modo. Far finta che non esista, considerarla un fenomeno parassitario ed effimero del tardo capitalismo, ignorarla sono solo sintomi di miopia culturale e non di superiorità intellettuale.

In effetti mi sembra che alcune teorie storiche, vedi per esempio quella sociologica di Veblen sul consumo vistoso, siano figlie di un sostanziale distacco, se non di disprezzo, verso chi partecipa del fenomeno e “consuma”.

Sì, giustissimo. Ma il problema non è solo Veblen ma una buona parte delle scienze sociali: in fondo tutta la tradizione francese che va da Goblot a Bourdieu e Baudrillard presuppone questo disprezzo per il consumo, per la merce consumata, la sua sostanza e la sua natura e soprattutto per chi consuma. Non c’è nulla di scientifico nel tentativo di spiegare il consumo facendone un semplice strumento di distinzione. Si tratta di una visione piuttosto rozza, parziale e soprattutto erede inconsapevole di antichi pregiudizi. Pensare che facciamo uso di cose solo per confermare il nostro sentimento di superiorità significa presupporre che le cose in sé non abbiano alcuna utilità intrinseca, nessuna  bellezza. E significa, soprattutto, sospettare che l’amore che ci porta verso le cose, la passione che la loro bellezza e la loro varietà suscita in noi sia qualcosa di insensato o colpevole. Certo, le società hanno bisogno di caratteri distintivi che si esprimono spesso nell’abito e nelle vesti per distinguere le sue parti: si tratta di un’ovvietà di cui l’umanità ha sempre saputo (già Agostino ne parlava). Ma pensare che ogni nostro rapporto con le cose sia l’espressione di questo bisogno fondamentale di distinzione sociale è un’idea rozza (l’uomo non vive solo per soddisfare i bisogni elementari della società di cui fa parte) o puramente tautologica. (…) Considerare il consumo come semplice segno ostentatorio dell’appartenenza a una classe sociale significa ostinarsi a voler mantenere in vita le leggi sontuarie nella forma di un’illusione teorica fortemente ideologica. Aveva ragione Herbert Blumer: oggi la moda (e si potrebbe dire la stessa cosa per ogni forma di consumo) è una sorta di “organo di gusto collettivo” attraverso cui una comunità produce e seleziona costruisce periodicamente la propria identità culturale attraverso le cose di cui fa uso. La moda e il consumo costituiscono una sorta di ordalia estetica collettiva attraverso cui la società prende decisioni sulla propria identità.

Serve anche un nuovo e più adeguato vocabolario. Nel libro ricostruisci l’origine della parola “feticismo” (Charles de Brossers, 1760) destinato poi a designare “l’amore proibito per le cose”, ma parole come “consumismo” o “mercificazione” hanno ancora senso nella tua prospettiva?

Assolutamente sì, sarebbe importantissimo dare nuovi nomi al nostro rapporto con le cose. Feticismo, consumismo, mercificazione, alienazione non sono termini neutri e neanche descrittivi: esprimono solo giudizi, pregiudizi e una forma di stucchevole moralismo. Le cose, tutte le cose, anche quelle più comuni hanno un’anima, ed è per questo che non smettiamo di avvicinarci a esse e a farne uso. Un paio di scarpe, una barca, un libro, un computer sono sempre (per chi le produce così come per chi ne fa uso) il medio di un’esistenza che è possibile solo attraverso di essi. Dare il nome alla vita che una cosa, una cosa qualsiasi è capace di liberare e rendere possibile e all’amore che essa può suscitare sarebbe un grande progresso. Ma trovare nuovi nomi è il compito del pubblicitario: forse, oltre che battezzare nuovi prodotti, la pubblicità dovrebbe sforzarsi di dare un nuovo nome al nostro rapporto con le cose…

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Ecco, che ruolo immagini per il linguaggio pubblicitario futuro?

La pubblicità ha saputo inventare ed elaborare il linguaggio della comunicazione della contemporaneità. Ha riconosciuto per prima quelle che potrebbero essere considerate le condizioni trascendentali della comunicazione pubblica della verità oggi: il primato del visuale rispetto al verbale; la necessità di comunicare la verità attraverso immagini a carattere effimero, immagini-lampo che desiderano sparire e che non chiedono alcuna eternità; la necessità di sostituire la psicagogia al comando. Per dirla con una battuta la pubblicità ha capito che la verità sociale è oggi qualcosa che può esistere in modo sensibile (come qualcosa che si vede, si ascolta, si sente, e non come mero enunciato intelligibile), che non ha nessuna natura pratica e che vive solo nell’istante. Proprio per questo è diventata il modello di ogni comunicazione politica e sarà sempre più importante in molti contesti. (…) La pubblicità è una forma estremamente raffinata e sinestetica di retorica, ed è normale che la politica ne faccia uso. E credo che il ruolo del pubblicitario sarà sempre più politico e sempre meno commerciale o imprenditoriale: saranno le istituzioni e non le imprese i primi committenti, anche perché tra istituzioni e imprese la differenza sembra sempre più labile.

Direi però che dalle tue parole emerge anche una nuova immagine del pubblicitario futuro, simile a quella di uno studioso.

La pubblicità è già un sapere ibrido che riesce a mescolare nel suo savoir-faire conoscenze di sociologia, di marketing, capacità retoriche e di affabulazione, abilità nel design, gusto estetico e competenze iconografiche per creare uno spazio di parola e di visione collettiva relativo, soprattutto, agli oggetti di uso quotidiano. Viste le trasformazioni economiche e sociali, forse la pubblicità dovrà occuparsi non solo di cose e di oggetti per avvicinarsi sempre di più a una sorta di arte generale della parola nello spazio pubblico, a una scienza dei luoghi comuni, a una nuova topica. Per adeguarsi a queste nuove esigenze il pubblicitario del futuro, più che estendere le proprie competenze, dovrà soprattutto sforzarsi di riunire e armonizzare nel proprio sguardo saperi, esperienze e conoscenze che lo stesso pubblico considera separati. Dovrà saper riconoscere i topoi, gli spazi in cui il mondo diventa riconoscibile e appropriabile da ciascuno. Si tratta di trovare e inventare delle forme di universalità ‘sociale’ che non siano più culturali. È una sfida enorme e sono curioso di vedere come i pubblicitari la affronteranno.

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